Ciao Umberto. Benvenuto
sul blog di Kipple Officina Libraria. È un onore averti qui. Prima
di tutto, per chi non ti conoscesse, che ne dici di raccontarci chi
sei?
Un americanista che
tanti anni fa si laureò con una tesi su Dick (era il lontano 1989),
ha continuato a lavorarci come altri studiosi italiani (da Carlo
Pagetti a Gabriele Frasca, senza dimenticare Antonio Caronia,
recentemente scomparso), poi, a differenza degli altri ha pubblicato
un libro negli Stati Uniti (nel 2011) che ancora vende qualche copia.
Aggiungo che la traduzione di Le tre stimmate di Palmer Eldritch
ancora in stampa è mia, con tutti i suoi pregi e difetti.
L'interesse accademico
per Philip K. Dick sembra aumentare di pari passo con quello di
Hollywood, sempre più incline a ispirarsi ai suoi racconti. Da dove
credi origini tutto questo interesse nei confronti dell'autore
californiano?
Cito Tommaso Pincio,
altro grande conoscitore di Dick (e suo traduttore): lo scrittore
californiano ha toccato tutti i temi fondamentali per comprendere il
mondo in cui viviamo, il potere dei media, l’intelligenza
artificiale, l’uso e abuso delle droghe, la politica-spettacolo, la
società dei simulacri… semplicemente il mondo della cultura in
generale e quello accademico in particolare si stanno accorgendo di
lui. L’anno scorso due eventi piuttosto grossi, un convegno
internazionale all’università di Dortmund, e il festival in una
delle università di San Francisco, hanno segnato il trentennale
della morte di Dick; ma altre cose sono all’orizzonte. In Italia
forse siamo stati più svelti degli americani (una volta tanto),
perché il picco dell’attenzione su Dick e la sua opera risalgono a
una decina d’anni fa, quando Fanucci comprò in blocco i diritti
della sua opera completa, e di Dick ne parlavano tutti, da Cofferati
a Toni Negri. Ora da noi l’interesse è un po’ calato, anche se
non scomparso del tutto, mentre mi sembra che adesso sia l’America
a dedicare sempre più attenzione a questo suo figliol prodigo. Prova
ne sia la pubblicazione di quindici dei suoi romanzi nella Library of
America, una collana molto seria e prestigiosa, paragonabile da noi
ai Meridiani Mondadori, o alla Pléiade francese…
Nel tuo saggio The
Shunts in the Tale: The Narrative Architecture of Philip K. Dick’s
VALIS, affronti il tema delle esperienze mistiche che Dick ha
integrato nei suoi romanzi e in modo particolare in VALIS. Spesso
questo aspetto di Dick viene schernito, facendo cenno a una
condizione psicologica instabile. Qual è la tua opinione a riguardo?
Vogliamo dire le cose
come stanno? Probabilmente Dick soffriva di disordine bipolare, cioè
di un’alternanza di fasi euforiche e depressive. Bene, non è il
primo scrittore ad avere problemi di ordine psichiatrico. Sappiamo
che Van Gogh è finito in manicomio (cosa che a Dick non è
successa). Vogliamo dire che non vale niente come pittore? Uno dei
più grandi poeti romantici tedeschi, Friederich Hölderlin, soffrì
negli ultimi anni della sua vita di schizofrenia, e firmava le sue
poesie col nome Scardanelli; resta comunque uno dei più grandi poeti
romantici tedeschi.
Quanto alle famose
visioni del febbraio-marzo 1974, sono uno dei temi più dibattuti, ma
siccome io non sono uno psicanalista né uno psichiatra mi
interessano solo come un’esperienza della vita di uno scrittore
degno del massimo rispetto in quanto scrittore, che da quelle
esperienze ha tratto materiali per romanzi degni del massimo
rispetto. Senza il raggio rosa dal quale Dick affermava di essere
stato colpito (qualunque cosa fosse in realtà), non avremmo Un
oscuro scrutare, VALIS, Invasione divina… e il
mondo sarebbe più povero. Del resto, a nutrire scetticismo verso
quelle visioni in certi momenti era lo stesso Dick. Non a caso
sintetizzò la sua vita con una frase lapidaria, parlando di sé in
terza persona: “S’è drogato. Ha visto Dio. Bel capolavoro!”
Il tuo libro The Twisted Worlds of Philip K. Dick: A Reading of
Twenty Ontologically Uncertain Novels, che fra l'altro contiene
anche il saggio The Shunts in the Tale, reperibile su Amazon a questo indirizzo,
raccoglie tutti i tuoi articoli su Dick. Quali temi dickiani affronti
del volume?
Diciamo che ho scelto
un tema che fa da filo conduttore, e cioè l’incertezza ontologica.
Cartesio scrisse “penso, dunque sono”; secondo Fredric Jameson il
ragionamento di Dick potrebbe essere “penso, dunque sono un
androide”. In Dick certezze non ce ne sono: ogni rivelazione potrà
essere smentita domani o dopodomani da una contro-rivelazione. Come
si vive in queste condizioni, che poi sono le nostre condizioni
attuali, a ben vedere? Ce lo racconta Dick nei suoi romanzi e
racconti. A parte queste considerazioni più sociologiche, più
culturali nel senso più ampio del termine, a me interessava vedere
cosa succede in un romanzo o un racconto, in un testo narrativo, una
volta che in esso opera il principio dell’incertezza ontologica, il
dubbio su cosa sia reale e cosa no. Io ci tengo a distinguere Dick da
Matrix e dai fratelli Wachowsky. In Matrix il messaggio
è “la realtà è un’altra”: siamo tornati a Platone con le sue
idee nascoste dietro i fenomeni. In Dick si scopre che la realtà è
un’altra, ma poi la realtà nascosta viene smentita anch’essa,
poi magari ci si ritorna su e si decide che no, è vera ma non è
proprio quello che sembrava all’inizio, e alla fine no, non era la
realtà neanche quella perché qualche rivelazione all’ultimo
minuto rimette tutto in dubbio. Anche quando Dio entra in scena, come
in VALIS, il dubbio permane fino alla fine, ed è il discorso
che porto avanti nell’articolo da te citato, dove cerco di smontare
il romanzo pezzo per pezzo. E’ un lavoro da bravi meccanici, e non
so se sono bravo come meccanico, però mi sembra di essere riuscito a
seguire il gioco di Dick fino alla fine, il gioco del Ratto, quello
che – secondo Thomas Disch – Dick giocava coi suoi lettori. Il
gioco del Ratto era una specie di Monopoli truccato dove il banchiere
può cambiare le regole durante la partita, e imporre per esempio a
tutti i giocatori di pagare una tassa che non esisteva prima o di
tirare un dado solo; e nei romanzi di Dick capita spesso che il gioco
della narrazione cambi le sue regole in corsa, spiazzando
completamente i lettori. E forse è proprio questo che ci piace
tanto!
Prendendo in
considerazione l'avvento delle nuove tecnologie che permettono,
grazie ad esempio agli ebook, alle piccole case editrici (anche
italiane) di ritagliarsi una fetta di mercato maggiore, come vedi il
futuro della fantascienza?
Mamma mia che domanda.
La domanda da un milione di dollari. Ho avuto una limitata esperienza
dell’industria e del mercato editoriale, per cui penso che altri
saprebbero rispondere meglio di me, però due cose penso di poterle
affermare.
Allora, l’ebook può essere un ottimo canale per una
letteratura di nicchia come quella di fantascienza. Oggi pubblicare
un libro è più semplice e più facile. Ma questo non significa che
siamo in paradiso, e che la fantascienza italiana prospererà. Qui
bisogna distinguere tra il mercato di lingua inglese e il nostro.
Talenti ce ne sono dappertutto. Prendi per esempio Tullio Avoledo:
sta scrivendo ottima fantascienza da anni, un romanzo dopo l’altro.
Solo che non la chiama fantascienza e viene pubblicato da Einaudi.
In Inghilterra è diverso: Iain Banks, scomparso prematuramente quest’anno, scriveva senza problemi sia fantascienza che altre cose. E non si nascondeva. Perché? Secondo me per un motivo molto semplice, e cioè che in Inghilterra (come anche negli Stati Uniti) hanno un’editoria di fantascienza professionale. Che vuol dire, seria, competente, preparata. Soprattutto hanno, più che gli editori (publisher) gli editor, e cioè quelli che lavorano gomito a gomito con lo scrittore per fare uscire un romanzo o un racconto al meglio. Chi crede che lo scrittore partorisca un testo perfetto, e lo dia all’editore che si limita a stamparlo, crede alle favole. L’editor è una figura fondamentale, necessaria, vitale. Ma nell’editoria di fantascienza di editor all’altezza di quelli inglesi e americani io non ne vedo. Gente come Campbell, ai suoi tempi, e poi Tony Boucher (che fu l’editor di Dick agli inizi), o Fred Pohl, fino a uno come Russell Galen, che lavorò con Dick per gli ultimi romanzi e ancora ha un’agenzia importante.
In Inghilterra è diverso: Iain Banks, scomparso prematuramente quest’anno, scriveva senza problemi sia fantascienza che altre cose. E non si nascondeva. Perché? Secondo me per un motivo molto semplice, e cioè che in Inghilterra (come anche negli Stati Uniti) hanno un’editoria di fantascienza professionale. Che vuol dire, seria, competente, preparata. Soprattutto hanno, più che gli editori (publisher) gli editor, e cioè quelli che lavorano gomito a gomito con lo scrittore per fare uscire un romanzo o un racconto al meglio. Chi crede che lo scrittore partorisca un testo perfetto, e lo dia all’editore che si limita a stamparlo, crede alle favole. L’editor è una figura fondamentale, necessaria, vitale. Ma nell’editoria di fantascienza di editor all’altezza di quelli inglesi e americani io non ne vedo. Gente come Campbell, ai suoi tempi, e poi Tony Boucher (che fu l’editor di Dick agli inizi), o Fred Pohl, fino a uno come Russell Galen, che lavorò con Dick per gli ultimi romanzi e ancora ha un’agenzia importante.
Allora lo scrittore
italiano dotato, come Avoledo, va da Einaudi e stampa la sua
fantascienza come narrativa generale. Fantascienza di contrabbando,
in maschera, sotto falso nome. Ma deve fare così, perché
pubblicando con Einaudi ha il supporto di una struttura professionale
e si confronta con editor competenti.
Quindi, riassumendo:
l’editoria elettronica è una grande opportunità, ma se la qualità
del prodotto non viene curata l’opportunità viene sprecata. Che tu
legga un libro di carta o di bit memorizzati su un Kindle, non conta;
quel che conta è che il libro si faccia leggere.
Ti ringrazio per
l'intervista, Umberto. È stato un piacere. Spero di riaverti presto
ospite.
Prego. Ha fatto
piacere anche a me!
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