Peter F. Hamilton sa usare ciò che conosce per mostrarci il suo futuro. |
“Scrivi ciò che
conosci.”
Quante volte noi scrittori abbiamo sentito questa frase e
quante volte abbiamo scosso la testa?
Ci sono autori che sono così legati a questo concetto da
raccontare storie che finiscono per diventare auto-referenziali e, diciamocelo, mica tanto interessanti, a meno che uno non abbia una vita fuori
dal comune.
Se il suo significato andasse preso alla lettera, l’intera letteratura
del fantastico non avrebbe senso di esistere. Questo perché non è possibile
conoscere qualcosa che non esiste.
Ammettere che esiste un problema in questa famosa
affermazione, allo stesso tempo, non significa che la si debba ignorare
completamente. Come per tutti i consigli letterari, va interpretata.
Quando si suggerisce di scrivere di ciò che si conosce, non
si intende di concentrarsi solo su
questo, ma di inserire anche questo
nei propri libri. La differenza tra le due interpretazioni è enorme.
Sebbene si raccontino storie ambientate in luoghi immaginari e
con tecnologie impossibili, ciò che rende la storia vera sono invece i piccoli dettagli e su di questi ci si
dovrebbe concentrare nel narrare di ciò di cui si ha esperienza.
Possono essere i piccoli gesti dei personaggi, o le
relazioni interpersonali, tutti aspetti
che sono universali e prescindono la collocazione spaziale o temporale di
una storia. Ma ancora ci si può riferire a luoghi
reali, sebbene trasferiti in contesti che non lo sono affatto. O ancora si
possono citare elementi della nostra quotidianità
reinventati nell’ambito della storia fantastica.
Di esempi ce ne sono tantissimi. In questo periodo sto
leggendo il bellissimo “Fallen Dragon” di Peter F. Hamilton, probabilmente il più
grande autore di fantascienza britannico contemporaneo. Hamilton scrive romanzi
lunghissimi, cosa che è già di per sé molto peculiare. Racconta inoltre di
futuri molto lontani, nel caso specifico si parla del venticinquesimo secolo. È ovvio che la sua fantasia svolge un ruolo
fondamentale nel riempire le oltre ottocento pagine del libro. Ed è altrettanto
ovvio che non può avere una conoscenza diretta di come sarà la Terra fra quattrocento
anni, né tanto meno eventuali colonie umane in altri pianeti. Ma, se si legge
il suo libro, ci si accorge che ciò che lo rende veramente coinvolgente non sono le tecnologie superavanzate in sé,
ma la storia umana dei protagonisti.
In questo romanzo si vede la regola dello “scrivi ciò che conosci” applicata in
mille modi diversi. C’è la storia di un adolescente
goffo, simile a quella di un qualsiasi suo coetaneo reale. C’è una Terra
del futuro, che però è riconoscibilissima.
Hamilton si sofferma addirittura a mostrare come le costruzioni di Amsterdam lungo i canali siano
esattamente come nel passato, con le carrucole per sollevare i mobili e
portarli dentro le case.
Quest’ultimo esempio mostra la potenza dell’applicazione di
questo principio. Io sono stata ad Amsterdam e nel leggere il passaggio in
questione mi sono trovata lì in un
secondo.
L’inserimento di elementi reali, conosciuti, dentro una
storia di fantascienza ha la capacità di ancorare
il lettore a qualcosa di ben chiaro nella sua mente, che fa parte della sua
esperienza personale, e grazie al quale viene poi portato a sospendere la sua incredulità rispetto a
tutto il resto.
Tempo fa ho parlato su FantaScientificast
di come questo meccanismo funzioni bene con la religione. Noi tutti abbiamo a che fare con la religione, volenti o
nolenti. Anche se non siamo credenti, gli elementi religiosi, soprattutto del
Cristianesimo, fanno parte del nostro background culturale. Ed ecco che, se un
autore inserisce una religione, temi o reali elementi riconducibili alla
religione (da citazioni bibliche a strutture gerarchiche che ricordano la
Chiesa, fino a elementi architettonici), il
lettore li riconosce e prende una posizione, di accordo o disaccordo, nei
loro confronti, finendo per immedesimarsi
nella situazione e nei personaggi.
Il discorso del raccontare ciò che si conosce è ancora più
marcato nella fantascienza, quando questa affronta argomenti scientifici, che di solito si basano sempre su qualcosa
di reale.
Ancora nel libro di Hamilton sono presenti tecnologie
incredibili che permettono all’uomo di viaggiare
attraverso portali in luoghi posti a distanze inimmaginabili o di modificare interi pianeti per renderli
adatti alla sopravvivenza umana. È ovvio che qui spesso si mostrano elementi
del tutto inventati, ma la maggior parte dei dettagli invece si basa su teorie scientifiche ipotizzate o
addirittura dimostrate, da cui l’autore prende spunto per sviluppare la
parte più speculativa.
Ma è proprio in questo modo che si realizza la magia. Talvolta i due tipi di
informazione sono così strettamente legati che anche il lettore dotato di una
preparazione scientifica fatica a
stabilire dei confini netti tra ciò che è reale e ciò che è inventato. La
competenza dell’autore su ciò che è reale si confonde con l’uso della fantasia
per ciò che è inventato. E ancora una volta si osserva la perfetta messa in
atto della sospensione dell’incredulità.
Ottima analisi. Credo che scrivere sci-fi o il genere fantasy sia tra i piu' difficili, perche' come dici tu, si parla in parte di cio' che non si conosce, di cio' che e' frutto dell'immaginazione dell'autore, e al contempo la storia deve essere credibile, se il lettore vuole sentirsi coinvolto.
RispondiEliminaDevo dire che i tuoi libri della collana "Deserto Rosso" sono riusciti veramente a combinare il fantasy con la realta'. Anche se le vicende si svolgono su Marte, le relazioni interpersonali sono come quelle che avvengono sulla Terra, le abitudini, i modi di pensare. Ecco che il lettore quasi si dimentica di essere su un altro pianeta, e viene completamente assorbito nelle avventure dei personaggi. E poi ogni tanto le piccole osservazioni, tipo la descrizione del deserto rosso, ti ricordano che siamo davvero in un altro mondo! Veramente bello :-)
Grazie Martina!
EliminaPensa che io scrivo proprio per sperimentare luoghi e situazioni che non posso conoscere. È un po' una vita alternativa, ma questo non significa che sia meno vera. Una volta che ti immedesimi nel personaggio, le tue emozioni sono reali e ciò che racconti è davvero qualcosa che conosci, perché lo stai provando in quel momento. Credo che la frase "scrivi quello che conosci" esorti proprio alla necessità di avere questo tipo di coinvolgimento, senza il quale non è possibile raccontare in maniera onesta una storia. Se questo meccanismo non si realizza nella mente dell'autore, il testo risulta falso e il lettore se ne accorge.
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiElimina