Giampietro Stocco sul suo blog recensisce La giustizia di Iside, di Clelia Farris. Ormai cominciamo a perdere il conto dei giudizi (tutti positivi) espressi in Rete su quest'opera e così vi incolliamo qui sotto il post, confidando nella comprensione di Stocco perché, ciò che ha scritto, è bello e, a nostro giudizio, vero.
Clelia Farris torna nel suo Egitto alternativo fatto di ingegneria genetica, misticismo, Rivoluzione verde e poliziotti a metà fra i personaggi di C.S.I. e Grey’s Anatomy, e stavolta, a mio giudizio, centra in pieno il bersaglio. La giustizia di Iside (Officina Kipple) è un sequel molto più riuscito del premiato La pesatura dell’anima. Un romanzo maturo, che può leggersi anche come “stand-alone” e in cui l’autrice finalmente coglie l’invito a spogliarsi delle velleità mainstream. Il prodotto è una storia in cui le tossine superstiti di “bella scrittura” integrano un sapiente intreccio in cui non c’è personaggio fine a se stesso o azione manierata che non siano del tutto funzionali alla vicenda. Tento di spiegarmi.Vi ricordiamo che il romanzo è in vendita sia in cartaceo che in digitale, quest'ultimo libero da DRM (in formato sia ePub che MOBI), al prezzo rispettivamente di 11€ e 2,5€. Buona lettura a tutti.
Di nuovo abbiamo una catena di delitti da chiarire, di nuovo i protagonisti saranno costretti ad affrontare un mondo costruito su un misticismo, si diceva, post-egizio, in cui la trovata geniale è sovrapporre una Rivoluzione Verde – ne La Pesatura dell’anima, come ahimé, molte altre originalità, appena abbozzata – che ha messo da parte il regime faraonico, qui indicato semplicemente come la Dinastia. E questo regime perennemente provvisorio riesce a giustificare anche le scivolate stilistiche allusorie e implicite che caratterizzano da sempre la scrittura di Clelia Farris, autrice di fantastico tra le migliori del nostro Paese; direi un autrice che si avvia a essere di gran lunga la migliore nel suo genere, ora che la strada è stata delineata con precisione.
Dello stile più asciutto ho già detto all’inizio. Un romanzo di genere non può prescindere da una solida trama: di norma il lettore di mistery, fantascienza o noir non si fa ingannare dalle “fighetterie” di maniera, ma vuole personaggi credibili, o comunque solidi e “carnosi”. Clelia Farris ci regala alcuni esempi da antologia, dall’ambigua protagonista Naïma all’irresistibile Sirah, sorta di Will principe di Bel Air trapiantato fra le Piramidi, con la sua esilarante parlata denderiana, uno slang che si avvia, a livello di culto, a raggiungere le vette letterarie del siciliano di Andrea Camilleri. C’è poi un divertimento di fondo nel delineare intrecci sentimentali fra i protagonisti che richiama le fiction di Fox, appunto C.S.I. per l’impianto poliziesco e i gadgets da indagine scientifica, e anche un po’ E.R. e soprattutto Grey’s Anatomy per i dolori di cuore dei personaggi. Niente di male, se funziona, e qui la ricetta funziona benissimo.
Infine, l’aspetto più propriamente di genere di questo romanzo, vale a dire la sospensione dell’incredulità che avviene con la descrizione delle creature del Mondo_di_Sotto e soprattutto del serdab. Sono stato tra quelli che in passato molto ha criticato Clelia Farris per un approccio un po’ snob alla scrittura. Ciò nonostante ho sempre pensato che, sotto i manierismi esagerati e osannati da una certa critica, ci fosse un patrimonio sconfinato di qualità letterarie. Posso dire con un certo orgoglio di non essermi sbagliato. Ne La giustizia di Iside mi inchino dunque con piacere alle scarne pennellate con cui si evoca un dimensione “altra”, sotterranea nel vero senso della parola. Basta cortine fumogene impressionistiche, i mostri sono “semplicemente” esperimenti genetici andati a male.
E chi, dunque, o cosa sarà la Iside che dimora nel serdab, alla quale non si può mentire, e intorno alla quale ruota l’intero sistema giudiziario di questo Egitto onirico ma non più metaforico come un tempo? Nel romanzo, il serdab così deludentemente evocato ne La pesatura dell’anima emerge come una dimensione alternativa ben definita, e la vena di Cezanne lascia spazio a un ben più solido tratto alla Kirchner, avvicinando Clelia Farris a maestri del genere fantastico impegnato come China Miéville; se vogliamo, la svolta giova anche al sottofondo sociale, tanto sbandierato da chi ha amato Rupes Recta e Nessun uomo è mio fratello, opere in cui invece, a mio avviso, il calligrafismo oscurava gran parte dello sforzo narrativo, precipitando il lettore nel tedio del sermone politico.
In poche parole: originalità dell’ambientazione, solidità dell’impianto narrativo, stavolta collocato in pieno nel genere, personaggi corposi e ben caratterizzati: il risultato è un romanzo che si fa godere dalla prima all’ultima pagina e in cui anche qualche scivolone da mainstream si rivela strategico, come una riga di evidenziatore che permette di riprendersi se si smarrisce il filo. Unico appunto, forse, il manierismo di intitolare i capitoli con la prima frase dei medesimi: già letto, già visto, già archiviato, da non ripetere, grazie. A parte ciò, insomma, una maturazione stilistica convincente e veloce che permette a Clelia Farris di ritagliarsi un posto di rilievo assoluto in un genere, come quello fantastico, che in Italia vede tanti, modestissimi, artigiani e davvero poche voci in grado di sollevarsi dal mucchio. Complimenti.
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