Ancora una recensione alla Pesatura dell'anima, di Clelia Farris, vincitrice dell'ultimo Premio Kipple, che testimonia l'alto interessa che si è coagulato attorno a quest'opera; stavolta a recensire il romanzo è Giampietro Stocco sul suo blog, The ucronicles:
Clelia vince stavolta il premio Kipple con La pesatura dell'anima, opera che immagina un Egitto alternativo in un periodo imprecisato, in cui si da' spazio all'ingegneria genetica e si pratica una giustizia molto avanzata, dove un gruppo ristretto di Giudici - i Sette - punisce si' con la morte l'assassinio, ma riesce anche a far resuscitare la vittima proprio tramite questa morte. Una situazione del tutto insolita, e non e' l'unica cosa insolita di questo romanzo, che oltre al presupposto tecnologico contiene una notevole sperimentazione linguistica, immaginando un gergo della città di Dendera che ovviamente e' del tutto inventato. Non per questo risulta meno godibile, ricordando certi sfizi della coppia Monaldi/Sorti in Secretum, tanto per dirne uno, e altre variazioni sul tema di una narrazione, come l'avrebbe concepita Neal Stephenson.
Quello che disorienta un lettore come me e' paradossalmente il pregio maggiore di questo romanzo, ciò che, guarda caso, lo allontana di più dalle saghe storiche di Monaldi e Sorti e dalla narrativa quasi psichedelica di Stephenson (anche se la narrativa di Clelia alle volte può risultare più che lisergica): l'assenza totale di infodump: scelta benedetta, ma non sempre. In questo caso l'ambientazione risulta vaga, non riesco a comprendere il perche' delle nuove tecnologie, capisco solo dopo attenta rilettura cosa sia questo benedetto Serdab, non mi e' chiarissimo alla fine, e questo è però un male non proprio da poco, il perche' dell'intera vicenda. Ovvio, può essere anche colpa mia, mi posso essere distratto in qualche momento topico, magari proprio mentre cristavo contro l'avarizia narrativa dell'autrice. Ecco, Clelia, come al solito sei stata un po' avara: qualche spiegazione in piu', un glossario meno enigmatico ce lo avresti potuto concedere; uno stile un po' meno chiuso su se stesso mi avrebbe personalmente aiutato, anche perche', giuro, l'attacco lo avevo giudicato ottimo, mi ero quasi emozionato. Poi però l'emozione ha lasciato spazio al disappunto.
Clelia vince stavolta il premio Kipple con La pesatura dell'anima, opera che immagina un Egitto alternativo in un periodo imprecisato, in cui si da' spazio all'ingegneria genetica e si pratica una giustizia molto avanzata, dove un gruppo ristretto di Giudici - i Sette - punisce si' con la morte l'assassinio, ma riesce anche a far resuscitare la vittima proprio tramite questa morte. Una situazione del tutto insolita, e non e' l'unica cosa insolita di questo romanzo, che oltre al presupposto tecnologico contiene una notevole sperimentazione linguistica, immaginando un gergo della città di Dendera che ovviamente e' del tutto inventato. Non per questo risulta meno godibile, ricordando certi sfizi della coppia Monaldi/Sorti in Secretum, tanto per dirne uno, e altre variazioni sul tema di una narrazione, come l'avrebbe concepita Neal Stephenson.
Quello che disorienta un lettore come me e' paradossalmente il pregio maggiore di questo romanzo, ciò che, guarda caso, lo allontana di più dalle saghe storiche di Monaldi e Sorti e dalla narrativa quasi psichedelica di Stephenson (anche se la narrativa di Clelia alle volte può risultare più che lisergica): l'assenza totale di infodump: scelta benedetta, ma non sempre. In questo caso l'ambientazione risulta vaga, non riesco a comprendere il perche' delle nuove tecnologie, capisco solo dopo attenta rilettura cosa sia questo benedetto Serdab, non mi e' chiarissimo alla fine, e questo è però un male non proprio da poco, il perche' dell'intera vicenda. Ovvio, può essere anche colpa mia, mi posso essere distratto in qualche momento topico, magari proprio mentre cristavo contro l'avarizia narrativa dell'autrice. Ecco, Clelia, come al solito sei stata un po' avara: qualche spiegazione in piu', un glossario meno enigmatico ce lo avresti potuto concedere; uno stile un po' meno chiuso su se stesso mi avrebbe personalmente aiutato, anche perche', giuro, l'attacco lo avevo giudicato ottimo, mi ero quasi emozionato. Poi però l'emozione ha lasciato spazio al disappunto.
Alla prima lettura, insomma, ho capito molto poco sia della trama, sia soprattutto della sua collocazione storica. Il che per un'ucronia non e' poco. L'ambientazione a tratti mi ha esaltato, non ho difficolta' ad ammetterlo, la lingua scelta pure. Tuttavia mi sono trovato a rincorrere tutto il resto. La seconda lettura è andata un po' meglio, ma nondimeno sono rimasto con l'amaro in bocca del lettore che prima si rallegra con tanta carne al fuoco e poi si rattrista quando scopre che troppo poche sono le pagine per cucinarla a dovere. Che sia stata una necessità di forza maggiore - oggi molti editori di sf spingono verso il romanzo breve - o una scelta dell'autrice poco importa. Mons peperit murem.
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