[Letto su ThrillerMagazine.it]
Shirley Jackson, maestra indiscussa dell’horror americano ammirata fra gli altri da Stephen King (che le dedicò anche un romanzo, “L’incendiaria”), era fino a qualche anno fa ancora poco conosciuta in Italia. La casa editrice Adelphi ha rimediato a questa mancanza pubblicando alcune delle sue opere più incisive tra le quali, oltre al volume di racconti del 1949 “La lotteria”, che contiene il suo celebre esordio dal titolo omonimo, spicca sicuramente il romanzo L’incubo di Hill House, apparso per la prima volta nel 1959. La storia è incentrata sulla figura di Eleanor, una donna di 32 anni che, una volta morta la madre inferma accudita per undici anni, capisce di non aver mai avuto una vera esistenza tutta sua, sensazione rafforzata da un presente grigio passato a litigare con la sorella e il cognato che la ospitano. Così, quando Eleanor riceve un invito a passare alcuni giorni nella lontana Hill House dallo sconosciuto professor Montague, accetta subito, convinta che quell’occasione le permetterà finalmente di cominciare a vivere. La sensazione di ebbrezza data dalla libertà di viaggiare in macchina lontana da casa, però, si spegne inesorabilmente non appena Eleanor si trova faccia a faccia con Hill House. Le parole che le affiorano alla mente contengono già tutto il futuro dibattersi della donna di fronte all’enigma della nuova avventura intrapresa: “Hill House è abominevole, è infetta; vattene subito di qui.” Ma Eleanor, ed è questa la vera chiave del romanzo che si è appena affacciato sulla pagina, semplicemente non può andare via, perché quella casa “chiusa intorno al buio” che l’avviluppa e le piomba addosso non appena entrata, sembra aspettare proprio lei, con aria “malvagia, ma paziente” ed Eleanor non può sottrarsi al suo sguardo perché ormai non ha un altro posto dove andare. “Sono come una creatura minuscola inghiottita tutta intera da un mostro,” pensa una volta condotta in quella che sarà la sua stanza, “e il mostro sente dentro di sé ogni mio minimo movimento.” Il passato è cancellato e il presente appare ogni attimo più inevitabile e sottilmente inquietante. Forse conoscere gli altri ospiti del professor Montague la aiuterà a distrarsi. Ci sono Theodora, che alloggia nella camera di fronte alla sua, giovane donna capricciosa ed elegante; Luke, nipote degli attuali padroni di Hill House, che non ha mai messo piede prima nella casa e ne ha già paura; e infine il professor Montague, indagatore di fenomeni paranormali, analitico e razionale. Il professore espone ai suoi ospiti il motivo della loro visita in quella casa: Montague intende condurre un’indagine sul paranormale grazie alle sue improvvisate assistenti (e al padrone di casa Luke), scelte in base a episodi di “possessione” avvenuti nel loro passato (poltergeist nel caso di Eleanor, telepatia nel caso di Theodora). Hill House è stata invece scelta perché è un luogo corrotto, affetto da una malattia dello spirito che nessuno è mai riuscito a spiegare ma di cui tutti gli abitanti della cittadina limitrofa non dubitano. Nessuno è in grado di dire cosa veramente accada alle persone che si trovano a girare tra le sue stanze vorticose e asimmetriche; l’unica cosa certa è che da oltre vent’anni la casa “non è idonea ad essere abitata da esseri umani” e anche prima di allora, molte delle persone vissute lì dentro avevano avuto una misera fine. Il suo creatore, Hugh Crain, aveva progettato la casa sperando che potesse diventare la residenza di campagna di famiglia. Fin dall’inizio, però, Hill House si rivelò un luogo lugubre e intento a guastare tutto quanto si intrufolava nei suoi meandri: innanzitutto vi morì la moglie di Crain “pochi minuti prima di posare gli occhi sulla casa”, poi, quando Crain stesso morì in Europa e la proprietà andò in eredità alla sua figlia maggiore, perì anche questa fra le braccia di Hill House e della polmonite, assistita unicamente dalla sua dama di compagnia. Infine, dopo un’estenuante causa tra la sorella minore della defunta e la dama di compagnia, Hill House travolse anche quest’ultima, spingendola ad impiccarsi dopo che la follia e le manie di persecuzione le avevano mangiato i pensieri. Da quel momento nessuno dei nuovi eredi di Hill House decise di mettervi più piede, affittando la casa soltanto a viaggiatori di passaggio o, come nel caso del professor Montague e dei suoi ospiti, per ricerche scientifiche.
La conoscenza della verità sulla casa e sulle persone che vi hanno sostato rende Eleanor sempre più incerta sull’effettiva possibilità di avere che una vita indipendente. Soprattutto, Hill House sembra voler a tutti i costi materializzare le sue fobie più nascoste, il suo senso di inadeguatezza, la solitudine, l’incapacità a funzionare come un “normale” essere umano in grado di ridere, scherzare e innamorarsi degli altri. Il cuore di Hill House, in particolare, con la sua torre grigia circondata da una barriera di vento gelido, procede con arrogante e perversa tenacia a separare la realtà delle cose dalle costruzioni della mente. Ogni muro trasuda sussurri, parole e gesti sempre più distinti che soltanto Eleanor riesce a sentire o vedere, forse perché sono diretti proprio a lei in quanto elemento più vulnerabile ma allo stesso tempo più tenace del gruppo, o forse perché in lei la casa riconosce una sua pari, un’eletta con cui stringere un patto di sangue. Mano a mano che le presenze “altre” procedono a sostituirsi alla mente lucida di Eleanor, la donna si convince di appartenere a quel luogo e di esserne il punto focale. Nonostante il professore cerchi di ristabilire un ordine razionale nei fenomeni che si verificano via via in ogni angolo della casa, la mente di Eleanor si dimostra tutt’altro che invulnerabile. “C’è una sola Eleanor,” spiega agli altri dopo uno dei tanti sussulti provocati dalla casa, “ed è tutto quello che ho. Non sopporto di vedere che mi dissolvo, scivolo via e mi separo, di modo che vivo solo in una metà, nella mia mente, e vedo l’altra metà di me [il corpo, nota mia] inerme e frenetica e trascinata e non ci posso fare nulla.” Eleanor vive fin dall’inizio una scissione, uno iato che separa l’interno dall’esterno, la mente dalla realtà, e in lei la realtà stessa arriva a confondersi con la rappresentazione che la mente plasma su di essa, fino a non distinguere più l’una dall’altra, o le sensazioni da ciò che le dovrebbe causare; da qui il pensiero dominante di Eleanor diventerà quello di arrendersi alla casa per non dubitare più di ciò che è e ciò che sente, per far coincidere le due cose. La natura illusoria della percezione travolge però Eleanor, che arriva a mutare il proprio punto di vista quasi senza accorgersene, finché sono gli altri abitanti provvisori della casa a diventare il nemico, non più la casa stessa, e non sarà più lei ad appartenere alla casa, ma Hill House a diventare sua, entrambe avvinte in un abbraccio di pietra che le renderà felici.
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