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L’inesperienza connettiva di Antonio Scurati

Partendo da una riflessione su Calvino riguardo al suo primo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno, Scurati s’inerpica nella complessa questione della cultura (e dell’immaginario collettivo) di massa.
Ripercorre una strada già indicata da “gente” come Paul Virilio, Roland Barthes, Michel Foucault, Guy Debord, Edgar Morin, Umberto Eco e, aggiungo io, Marshall McLuhan, Pierre Levy, e, perché no, Jean Baudrillard. Si parla ormai, mi vien da dire, delle solite cose: che la realtà e la finzione hanno i confini sempre più labili, che vivono sempre più in un regime di “confusività” (ottima questa parola usata da Scurati), che la finzione stessa prevale sulla realtà, che “il vero è un momento del falso” (Debord). Ora: non ci sarà mica bisogno di fare tanti esempi, vero? Basta che vi citi qualsiasi reality show in tv, “roba” tipo Il codice Da Vinci (Reality Novel?) nella letteratura, The Blair Witch Project e Paranormal Activity al cinema, la body-art nell’arte e la “fantastica” novità dei Reality Crime per farvi capire di che stiamo parlando. Oggi non è più importante capire dove sta il vero, anche e soprattutto perché la finzione stessa modifica il vero. Questo è un comportamento del tutto quantistico (nella meccanica quantistica l’osservazione modifica il fenomeno), che riporta il mondo alla concezione eraclitea del panta rei, un flusso indistinto e ininterrotto dove ogni contenuto è dissolto. E fin qui ci siamo.
A un certo punto di questo La letteratura dell’inesperienza Scurati si preoccupa del ruolo dello scrittore: la sua non è più un’esperienza diretta (della guerra, per esempio, come nel primo libro di Calvino), ma un’esperienza mediata, e quindi, di fatto, un’inesperienza. In pratica per Scurati, nel fiume dell’eterno presente si è costantemente immersi, ma non ci si bagna mai.
Mi riserverei di non essere d’accordo, se non capissi, andando avanti nella lettura, le sue intenzioni: secondo me di fatto viviamo sempre esperienze mediate, tranne forse, la morte.
L’inesperienza di Scurati è il giudizio che egli dà a questo fenomeno: bisogna resistere alla cultura di massa, sostiene.
E non si può non essere d’accordo: è necessario, è vitale, discernere ciò che è giusto da ciò che non lo è. Frase forte che non avrei mai pensato di scrivere. Del resto, bisogna essere sinceri, il giudizio provoca proprio questo: cose giuste e sbagliate. Questo non vuol dire separare il vero dal falso, visto che è quasi impossibile, ma giudicare in base a uno statuto, una costituzione che ci dica quale immaginario collettivo giova all’uomo e quale gli va contro, che cerchi di dividere il flusso della realtà fittizia e virtuale (direi epica) a favore della vita e la tendenza all’autolesionismo.
Facile a dirsi: ma come fare?
Scurati stesso, sui rende conto quanto è difficile: il suo Rumore sordo della battaglia, tentativo meta-pop,  pur riuscendo, risulta essere identico a un romanzo pop (come lui stesso sostiene). Eppure: “lo scrittore deve continuare a essere il veleno del proprio ambiente sociale” e qui bisogna innanzitutto pensare a quello che sta succedendo a livello psicosociale: la sfocatura tra reale e immaginario libera l’uomo dall’esperienza della propria mortalità e la affranca nella mortalità degli altri. E non bisogna essere Gesù Cristo per capire che questo è la cosa sbagliata.
Il Connettivismo, nell’esaltazione di alcuni fenomeni della contemporaneità, da un lato sposa questo sfumato, dall’altro (e lo dico con cognizione di causa, conoscendone i più importanti membri) rimane su posizioni critiche, slegate dai fenomeni di massa.
Insomma, abbiamo bisogno di persone che compongano una sorta di “Fondazione (alla Asimov) costituzionale  dell’immaginario di massa”, un gruppo di persone che, lungi dal censurare, si limiti a giudicare da posizioni di isolazionismo intellettuale.
Comincio io: Reality crime no; Talent show sì; Dan Brown no; Wu Ming sì; diffusione payTv no, diffusione internet sì; chirurgia estetica curativa e/o artistica sì, chirurgia estetica per canonizzazione proprio aspetto no; Inception sì, Avatar (il film) no...

4 commenti:

  1. estremizzo: rifondazione del "reale"; sfondamento dei limiti attuali per capire cosa è davvero importante del ciclo vitale (vitale non significa necessariamente "biologico").

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  2. sì, zoon, dopo sarà così. Accettare che il vitale non sia SOLO umano.
    Per questo serve uno zoccolo duro di persone che monitorano il processo verso la Singolarità, senza necessariamente rallentarlo, ma anzi a volte accelerandolo.

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  3. “lo scrittore deve continuare a essere il veleno del proprio ambiente sociale”

    Perchè veleno? La letteratura non è forse l'antidoto?

    Creare, non imitare. Ciao.

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  4. La letteratura era l'antidoto. Oggi è fortemente avvelenata dal mercato che fa vendere migliaia di copie di raccolte a cassaccio di battute rubate e ritrite dell'ultimo guitto di telecorte, o dell'autobiografia dell'ultima dama-da-compagnia con le tette goniometricamente rifatte, golem della distruzione artistica televisiva. E non è il telecarrozzone (necessario) che preoccupa, ma il suo espandersi e conquistare luoghi da sempre legati all'intelletto e al ragionamento (letteratura, arte, filosofia): oggi c'è Zecchi superstar (suo malgrado), Cattelan antistar e Dan Brown super-antistar.
    Oggi l'antidoto al veleno sono nuovi veleni
    che hanno i nomi di Saviano, Orlan, Deleuze...

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