Sabato 27 novembre è avvenuto all'Arci BLOB di Arcore (sì, proprio ad Arcore-Hardcore) forse uno dei migliori esempi di arte contemporanea svincolata dalla logica del mercato.
Sto parlando del Decennale di un gruppo musicale brianzolo che di chiama ODRZ, una sorta di codice fiscale del gruppo che li ha preceduti (Onde Rozze).
Dieci anni all'insegna di power noise, sperimentazione sonora, performance e espressioni di abominevolezza dell'operaio delle catene di montaggio industriali (tanto presente in Brianza),
che hanno condotto gli ODRZ (tra le altre cose) a un progetto diviso in 9 CD con 9 brani da un'ora (8 ore di lavoro e una di pausa), prodotto in Norvegia, evidentemente terra di orizzonti più ampi dell'Italia (culturali dico, non paesaggistici!).
Vera industriasl music, quindi. Per il loro decimo compleanno, oltre a torta e spumante, hanno performato insieme a chi aveva collaborato con loro in passato.
Ne è risultato un festival di musica, danza, pittura live, reading, video e performace (tra cui la saldatura della scritta in ferro ODRZ). Il tutto ben coordinato e mescolato con equilibrio.
Si sono viste/sentite danze pseudomeccaniche su tappeti sonori da mondo parallelo, scintille e letture prostrate, pitture dal vivo su lavagna luminosa. Il tutto al costo della tessera Arci per chi non l'aveva ancora.
Per la cronaca hanno partecipato, oltre a Massimo e Antonio (ODRZ): Dante Tanzi (eletronica), Marcella Fanzaga, Elena Pellegatta e Roberta Minici (danza), Alessandro Mottadelli (video), Kremo e Mario Bistoletti (reading), Spiral (noise-feedback), Stefano Giorgi (pittura), Patrizia Oliva "Madame P" (voce), Jan M. Iversen (elettronica), Luca Valisi (basso) e Castrenze Calandra (scultura).
Raramente ho respirato una sensazione simile (ricordo sicuramente il decennale dell'etichetta AFE di Andrea Marutti al Baraonda di Segrate nel 2005: 600 persone per 12 ore e più di performance continue di estrema avanguardia, ma questo non sono io a doverlo dire).
A quanto pare a non tutti pensano che l'arte vada vista nei musei: è evidente, quella dei musei ha un intendo storico ed educativo, è materiale di studio, è l'arte del passato.
Oggi l'arte non può accontentarsi delle Fiere mercato, dei pezzi multipli e delle litografie, non può accontentarsi di Venezia, della Scala, di Castrocaro.
L'arte del XXI secolo non è banalmente "contaminata", ma stanno nascendo nuove forme d'arte con una propria dignità (la pittura live con danza, il reading-scultura).
Il resto è storia.
L'incubo di Hill House, Shirley Jackson
[Letto su ThrillerMagazine.it]
Shirley Jackson, maestra indiscussa dell’horror americano ammirata fra gli altri da Stephen King (che le dedicò anche un romanzo, “L’incendiaria”), era fino a qualche anno fa ancora poco conosciuta in Italia. La casa editrice Adelphi ha rimediato a questa mancanza pubblicando alcune delle sue opere più incisive tra le quali, oltre al volume di racconti del 1949 “La lotteria”, che contiene il suo celebre esordio dal titolo omonimo, spicca sicuramente il romanzo L’incubo di Hill House, apparso per la prima volta nel 1959. La storia è incentrata sulla figura di Eleanor, una donna di 32 anni che, una volta morta la madre inferma accudita per undici anni, capisce di non aver mai avuto una vera esistenza tutta sua, sensazione rafforzata da un presente grigio passato a litigare con la sorella e il cognato che la ospitano. Così, quando Eleanor riceve un invito a passare alcuni giorni nella lontana Hill House dallo sconosciuto professor Montague, accetta subito, convinta che quell’occasione le permetterà finalmente di cominciare a vivere. La sensazione di ebbrezza data dalla libertà di viaggiare in macchina lontana da casa, però, si spegne inesorabilmente non appena Eleanor si trova faccia a faccia con Hill House. Le parole che le affiorano alla mente contengono già tutto il futuro dibattersi della donna di fronte all’enigma della nuova avventura intrapresa: “Hill House è abominevole, è infetta; vattene subito di qui.” Ma Eleanor, ed è questa la vera chiave del romanzo che si è appena affacciato sulla pagina, semplicemente non può andare via, perché quella casa “chiusa intorno al buio” che l’avviluppa e le piomba addosso non appena entrata, sembra aspettare proprio lei, con aria “malvagia, ma paziente” ed Eleanor non può sottrarsi al suo sguardo perché ormai non ha un altro posto dove andare. “Sono come una creatura minuscola inghiottita tutta intera da un mostro,” pensa una volta condotta in quella che sarà la sua stanza, “e il mostro sente dentro di sé ogni mio minimo movimento.” Il passato è cancellato e il presente appare ogni attimo più inevitabile e sottilmente inquietante. Forse conoscere gli altri ospiti del professor Montague la aiuterà a distrarsi. Ci sono Theodora, che alloggia nella camera di fronte alla sua, giovane donna capricciosa ed elegante; Luke, nipote degli attuali padroni di Hill House, che non ha mai messo piede prima nella casa e ne ha già paura; e infine il professor Montague, indagatore di fenomeni paranormali, analitico e razionale. Il professore espone ai suoi ospiti il motivo della loro visita in quella casa: Montague intende condurre un’indagine sul paranormale grazie alle sue improvvisate assistenti (e al padrone di casa Luke), scelte in base a episodi di “possessione” avvenuti nel loro passato (poltergeist nel caso di Eleanor, telepatia nel caso di Theodora). Hill House è stata invece scelta perché è un luogo corrotto, affetto da una malattia dello spirito che nessuno è mai riuscito a spiegare ma di cui tutti gli abitanti della cittadina limitrofa non dubitano. Nessuno è in grado di dire cosa veramente accada alle persone che si trovano a girare tra le sue stanze vorticose e asimmetriche; l’unica cosa certa è che da oltre vent’anni la casa “non è idonea ad essere abitata da esseri umani” e anche prima di allora, molte delle persone vissute lì dentro avevano avuto una misera fine. Il suo creatore, Hugh Crain, aveva progettato la casa sperando che potesse diventare la residenza di campagna di famiglia. Fin dall’inizio, però, Hill House si rivelò un luogo lugubre e intento a guastare tutto quanto si intrufolava nei suoi meandri: innanzitutto vi morì la moglie di Crain “pochi minuti prima di posare gli occhi sulla casa”, poi, quando Crain stesso morì in Europa e la proprietà andò in eredità alla sua figlia maggiore, perì anche questa fra le braccia di Hill House e della polmonite, assistita unicamente dalla sua dama di compagnia. Infine, dopo un’estenuante causa tra la sorella minore della defunta e la dama di compagnia, Hill House travolse anche quest’ultima, spingendola ad impiccarsi dopo che la follia e le manie di persecuzione le avevano mangiato i pensieri. Da quel momento nessuno dei nuovi eredi di Hill House decise di mettervi più piede, affittando la casa soltanto a viaggiatori di passaggio o, come nel caso del professor Montague e dei suoi ospiti, per ricerche scientifiche.
La conoscenza della verità sulla casa e sulle persone che vi hanno sostato rende Eleanor sempre più incerta sull’effettiva possibilità di avere che una vita indipendente. Soprattutto, Hill House sembra voler a tutti i costi materializzare le sue fobie più nascoste, il suo senso di inadeguatezza, la solitudine, l’incapacità a funzionare come un “normale” essere umano in grado di ridere, scherzare e innamorarsi degli altri. Il cuore di Hill House, in particolare, con la sua torre grigia circondata da una barriera di vento gelido, procede con arrogante e perversa tenacia a separare la realtà delle cose dalle costruzioni della mente. Ogni muro trasuda sussurri, parole e gesti sempre più distinti che soltanto Eleanor riesce a sentire o vedere, forse perché sono diretti proprio a lei in quanto elemento più vulnerabile ma allo stesso tempo più tenace del gruppo, o forse perché in lei la casa riconosce una sua pari, un’eletta con cui stringere un patto di sangue. Mano a mano che le presenze “altre” procedono a sostituirsi alla mente lucida di Eleanor, la donna si convince di appartenere a quel luogo e di esserne il punto focale. Nonostante il professore cerchi di ristabilire un ordine razionale nei fenomeni che si verificano via via in ogni angolo della casa, la mente di Eleanor si dimostra tutt’altro che invulnerabile. “C’è una sola Eleanor,” spiega agli altri dopo uno dei tanti sussulti provocati dalla casa, “ed è tutto quello che ho. Non sopporto di vedere che mi dissolvo, scivolo via e mi separo, di modo che vivo solo in una metà, nella mia mente, e vedo l’altra metà di me [il corpo, nota mia] inerme e frenetica e trascinata e non ci posso fare nulla.” Eleanor vive fin dall’inizio una scissione, uno iato che separa l’interno dall’esterno, la mente dalla realtà, e in lei la realtà stessa arriva a confondersi con la rappresentazione che la mente plasma su di essa, fino a non distinguere più l’una dall’altra, o le sensazioni da ciò che le dovrebbe causare; da qui il pensiero dominante di Eleanor diventerà quello di arrendersi alla casa per non dubitare più di ciò che è e ciò che sente, per far coincidere le due cose. La natura illusoria della percezione travolge però Eleanor, che arriva a mutare il proprio punto di vista quasi senza accorgersene, finché sono gli altri abitanti provvisori della casa a diventare il nemico, non più la casa stessa, e non sarà più lei ad appartenere alla casa, ma Hill House a diventare sua, entrambe avvinte in un abbraccio di pietra che le renderà felici.
Shirley Jackson, maestra indiscussa dell’horror americano ammirata fra gli altri da Stephen King (che le dedicò anche un romanzo, “L’incendiaria”), era fino a qualche anno fa ancora poco conosciuta in Italia. La casa editrice Adelphi ha rimediato a questa mancanza pubblicando alcune delle sue opere più incisive tra le quali, oltre al volume di racconti del 1949 “La lotteria”, che contiene il suo celebre esordio dal titolo omonimo, spicca sicuramente il romanzo L’incubo di Hill House, apparso per la prima volta nel 1959. La storia è incentrata sulla figura di Eleanor, una donna di 32 anni che, una volta morta la madre inferma accudita per undici anni, capisce di non aver mai avuto una vera esistenza tutta sua, sensazione rafforzata da un presente grigio passato a litigare con la sorella e il cognato che la ospitano. Così, quando Eleanor riceve un invito a passare alcuni giorni nella lontana Hill House dallo sconosciuto professor Montague, accetta subito, convinta che quell’occasione le permetterà finalmente di cominciare a vivere. La sensazione di ebbrezza data dalla libertà di viaggiare in macchina lontana da casa, però, si spegne inesorabilmente non appena Eleanor si trova faccia a faccia con Hill House. Le parole che le affiorano alla mente contengono già tutto il futuro dibattersi della donna di fronte all’enigma della nuova avventura intrapresa: “Hill House è abominevole, è infetta; vattene subito di qui.” Ma Eleanor, ed è questa la vera chiave del romanzo che si è appena affacciato sulla pagina, semplicemente non può andare via, perché quella casa “chiusa intorno al buio” che l’avviluppa e le piomba addosso non appena entrata, sembra aspettare proprio lei, con aria “malvagia, ma paziente” ed Eleanor non può sottrarsi al suo sguardo perché ormai non ha un altro posto dove andare. “Sono come una creatura minuscola inghiottita tutta intera da un mostro,” pensa una volta condotta in quella che sarà la sua stanza, “e il mostro sente dentro di sé ogni mio minimo movimento.” Il passato è cancellato e il presente appare ogni attimo più inevitabile e sottilmente inquietante. Forse conoscere gli altri ospiti del professor Montague la aiuterà a distrarsi. Ci sono Theodora, che alloggia nella camera di fronte alla sua, giovane donna capricciosa ed elegante; Luke, nipote degli attuali padroni di Hill House, che non ha mai messo piede prima nella casa e ne ha già paura; e infine il professor Montague, indagatore di fenomeni paranormali, analitico e razionale. Il professore espone ai suoi ospiti il motivo della loro visita in quella casa: Montague intende condurre un’indagine sul paranormale grazie alle sue improvvisate assistenti (e al padrone di casa Luke), scelte in base a episodi di “possessione” avvenuti nel loro passato (poltergeist nel caso di Eleanor, telepatia nel caso di Theodora). Hill House è stata invece scelta perché è un luogo corrotto, affetto da una malattia dello spirito che nessuno è mai riuscito a spiegare ma di cui tutti gli abitanti della cittadina limitrofa non dubitano. Nessuno è in grado di dire cosa veramente accada alle persone che si trovano a girare tra le sue stanze vorticose e asimmetriche; l’unica cosa certa è che da oltre vent’anni la casa “non è idonea ad essere abitata da esseri umani” e anche prima di allora, molte delle persone vissute lì dentro avevano avuto una misera fine. Il suo creatore, Hugh Crain, aveva progettato la casa sperando che potesse diventare la residenza di campagna di famiglia. Fin dall’inizio, però, Hill House si rivelò un luogo lugubre e intento a guastare tutto quanto si intrufolava nei suoi meandri: innanzitutto vi morì la moglie di Crain “pochi minuti prima di posare gli occhi sulla casa”, poi, quando Crain stesso morì in Europa e la proprietà andò in eredità alla sua figlia maggiore, perì anche questa fra le braccia di Hill House e della polmonite, assistita unicamente dalla sua dama di compagnia. Infine, dopo un’estenuante causa tra la sorella minore della defunta e la dama di compagnia, Hill House travolse anche quest’ultima, spingendola ad impiccarsi dopo che la follia e le manie di persecuzione le avevano mangiato i pensieri. Da quel momento nessuno dei nuovi eredi di Hill House decise di mettervi più piede, affittando la casa soltanto a viaggiatori di passaggio o, come nel caso del professor Montague e dei suoi ospiti, per ricerche scientifiche.
La conoscenza della verità sulla casa e sulle persone che vi hanno sostato rende Eleanor sempre più incerta sull’effettiva possibilità di avere che una vita indipendente. Soprattutto, Hill House sembra voler a tutti i costi materializzare le sue fobie più nascoste, il suo senso di inadeguatezza, la solitudine, l’incapacità a funzionare come un “normale” essere umano in grado di ridere, scherzare e innamorarsi degli altri. Il cuore di Hill House, in particolare, con la sua torre grigia circondata da una barriera di vento gelido, procede con arrogante e perversa tenacia a separare la realtà delle cose dalle costruzioni della mente. Ogni muro trasuda sussurri, parole e gesti sempre più distinti che soltanto Eleanor riesce a sentire o vedere, forse perché sono diretti proprio a lei in quanto elemento più vulnerabile ma allo stesso tempo più tenace del gruppo, o forse perché in lei la casa riconosce una sua pari, un’eletta con cui stringere un patto di sangue. Mano a mano che le presenze “altre” procedono a sostituirsi alla mente lucida di Eleanor, la donna si convince di appartenere a quel luogo e di esserne il punto focale. Nonostante il professore cerchi di ristabilire un ordine razionale nei fenomeni che si verificano via via in ogni angolo della casa, la mente di Eleanor si dimostra tutt’altro che invulnerabile. “C’è una sola Eleanor,” spiega agli altri dopo uno dei tanti sussulti provocati dalla casa, “ed è tutto quello che ho. Non sopporto di vedere che mi dissolvo, scivolo via e mi separo, di modo che vivo solo in una metà, nella mia mente, e vedo l’altra metà di me [il corpo, nota mia] inerme e frenetica e trascinata e non ci posso fare nulla.” Eleanor vive fin dall’inizio una scissione, uno iato che separa l’interno dall’esterno, la mente dalla realtà, e in lei la realtà stessa arriva a confondersi con la rappresentazione che la mente plasma su di essa, fino a non distinguere più l’una dall’altra, o le sensazioni da ciò che le dovrebbe causare; da qui il pensiero dominante di Eleanor diventerà quello di arrendersi alla casa per non dubitare più di ciò che è e ciò che sente, per far coincidere le due cose. La natura illusoria della percezione travolge però Eleanor, che arriva a mutare il proprio punto di vista quasi senza accorgersene, finché sono gli altri abitanti provvisori della casa a diventare il nemico, non più la casa stessa, e non sarà più lei ad appartenere alla casa, ma Hill House a diventare sua, entrambe avvinte in un abbraccio di pietra che le renderà felici.
REFF. Un libro, un catalogo, un nuovo modello di editoria aumentata
[Letto su BooksBlog.it]
Stupirsi dinanzi a un libro è un’esperienza che mi sconvolge. Abituati a considerare il libro come un qualcosa di familiare, non ci rendiamo conto, spesso, delle mille potenzialità di questo insieme di foglie tenuti insieme da un qualche collante. Ho fatto l’esperienza dello stupore avendo tra le mani il Reff Book – RomaEuropa Fake Factory: la reinvenzione del reale attraverso pratiche critiche di remix, mashup, ricontestualizzazione, reenactment.
Definirlo un libro d’arte o un catalogo sarebbe riduttivo perché, come scrive Bruce Sterling nella prefazione:
“Al momento, i comportamenti e le attività che sono oggetto di questo libro sono considerati bizzarri. Molto bizzarri. Essi sono così particolari che è intrinsecamente difficile descriverli, perché vengono dai confini estremi di una network-culture emergente. Potrei scrivere un intero libro su queste idee e queste pratiche, un libro che sarebbe science fiction, architecture fiction, design fiction, un manuale tecnico e anche un manifesto per la network economics. Sarebbe abbastanza simile a questo libro, solo non così divertente.”
In estrema sintesi, REFF raccoglie l’esperienza del RomaEuropa FakeFactory, ricostruendone il percorso grazie alle opere e i contributi di artisti, intellettuali, docenti, giornalisti, giuristi, e attivisti che vi partecipa. Dalla condivisione di un’azione comune a favore della cultura libera e di forme non proprietarie del diritto di autore, gli interventi si confrontano su temi che fanno storcere un po’ il naso a editori e lettori all’antica, quali arte e hacking, attivismo politico e tecnologico, copyright e proprietà intellettuale, modelli open source, reinvenzione del reale.
Interessante e stimolante, poi, l’idea di progettare una nuova editoria possibile:
“Il libro è pienamente integrato con la dimensione digitale attraverso elementi di Realtà Aumentata come Qrcode e Fiducial Marker. Associati alla rete e ai social network globali, questi dispositivi trasformano l’esperienza della lettura in una dimensione interattiva, relazionale, processuale, dalle possibilità completamente inedite. Il software si deposita sulla carta trasformandola in ipertesto, rendendola cliccabile, espandibile, commentabile e reattiva, aprendo uno spazio di confronto virtualmente illimitato tra autori e lettori sui temi e sul dibattito del libro, per dissolvere il confine che li separa.”
Stupirsi dinanzi a un libro è un’esperienza che mi sconvolge. Abituati a considerare il libro come un qualcosa di familiare, non ci rendiamo conto, spesso, delle mille potenzialità di questo insieme di foglie tenuti insieme da un qualche collante. Ho fatto l’esperienza dello stupore avendo tra le mani il Reff Book – RomaEuropa Fake Factory: la reinvenzione del reale attraverso pratiche critiche di remix, mashup, ricontestualizzazione, reenactment.
Definirlo un libro d’arte o un catalogo sarebbe riduttivo perché, come scrive Bruce Sterling nella prefazione:
“Al momento, i comportamenti e le attività che sono oggetto di questo libro sono considerati bizzarri. Molto bizzarri. Essi sono così particolari che è intrinsecamente difficile descriverli, perché vengono dai confini estremi di una network-culture emergente. Potrei scrivere un intero libro su queste idee e queste pratiche, un libro che sarebbe science fiction, architecture fiction, design fiction, un manuale tecnico e anche un manifesto per la network economics. Sarebbe abbastanza simile a questo libro, solo non così divertente.”
In estrema sintesi, REFF raccoglie l’esperienza del RomaEuropa FakeFactory, ricostruendone il percorso grazie alle opere e i contributi di artisti, intellettuali, docenti, giornalisti, giuristi, e attivisti che vi partecipa. Dalla condivisione di un’azione comune a favore della cultura libera e di forme non proprietarie del diritto di autore, gli interventi si confrontano su temi che fanno storcere un po’ il naso a editori e lettori all’antica, quali arte e hacking, attivismo politico e tecnologico, copyright e proprietà intellettuale, modelli open source, reinvenzione del reale.
Interessante e stimolante, poi, l’idea di progettare una nuova editoria possibile:
“Il libro è pienamente integrato con la dimensione digitale attraverso elementi di Realtà Aumentata come Qrcode e Fiducial Marker. Associati alla rete e ai social network globali, questi dispositivi trasformano l’esperienza della lettura in una dimensione interattiva, relazionale, processuale, dalle possibilità completamente inedite. Il software si deposita sulla carta trasformandola in ipertesto, rendendola cliccabile, espandibile, commentabile e reattiva, aprendo uno spazio di confronto virtualmente illimitato tra autori e lettori sui temi e sul dibattito del libro, per dissolvere il confine che li separa.”
Jack London, Martin Eden e il richiamo del sonno profondo
Domani è il 94° aniversario della morte di Jack London.
Una meritata menzione per l'autore (per me) più profondo tra gli scrittori di avventure che andavano molto di moda tra l'Ottocento e il Novecento e che è un filone e cha ha alimentato la fantascienza fino almeno agli anni 50.
Per rendersene conto basta leggere Martin Eden, dove la sua vita è richiamata da quella del protagonista, ma soprattutto dove si palesano le proprie idee.
E' in questo romanzo che Jack London esterna tutta la sua critica contro la società borghese-capitalista in forte ascesa nei primi anni del Novecento (la Belle Epoque).
Un libro memorabile sotto molti punti di vista, sicuramente uno tra i romanzi più importanti dell'epoca.
E che dire poi, della sua produzione meramente avventurosa, tipo "Il richiamo della Foresta"?
Quante volte, qualche anno fa, si ostinavano a dare in tv "Zanna Bianca" il pomeriggio di Natale, senza sapere (o forse ben consapevoli) che il pubblico si trovasse nella penosa fase digestiva di un eccessivo pranzo natalizio?
E che ben presto il telespetattore si sarebbe addormentato davanti a quelle interminabili sequenze forestali con gli ululati dei lupi che somigliavano tanto a sbadigli?
E che molti di loro continuavano le avventure cinofile nei sogni, che terminavano, a fine pomeriggio, con le sequenze finali del film?
Un viaggio avventuroso-onirico che fa parte dell'infanzia di molti di noi.
Yawwwwwn.
Una meritata menzione per l'autore (per me) più profondo tra gli scrittori di avventure che andavano molto di moda tra l'Ottocento e il Novecento e che è un filone e cha ha alimentato la fantascienza fino almeno agli anni 50.
Per rendersene conto basta leggere Martin Eden, dove la sua vita è richiamata da quella del protagonista, ma soprattutto dove si palesano le proprie idee.
E' in questo romanzo che Jack London esterna tutta la sua critica contro la società borghese-capitalista in forte ascesa nei primi anni del Novecento (la Belle Epoque).
Un libro memorabile sotto molti punti di vista, sicuramente uno tra i romanzi più importanti dell'epoca.
E che dire poi, della sua produzione meramente avventurosa, tipo "Il richiamo della Foresta"?
Quante volte, qualche anno fa, si ostinavano a dare in tv "Zanna Bianca" il pomeriggio di Natale, senza sapere (o forse ben consapevoli) che il pubblico si trovasse nella penosa fase digestiva di un eccessivo pranzo natalizio?
E che ben presto il telespetattore si sarebbe addormentato davanti a quelle interminabili sequenze forestali con gli ululati dei lupi che somigliavano tanto a sbadigli?
E che molti di loro continuavano le avventure cinofile nei sogni, che terminavano, a fine pomeriggio, con le sequenze finali del film?
Un viaggio avventuroso-onirico che fa parte dell'infanzia di molti di noi.
Yawwwwwn.
Clelia Farris ha vinto il Premio Kipple
[Letto su Fantascienza.com]
La terza edizione del Premio Kipple (anno 2010) è stata assegnata al romanzo La pesatura dell'anima di Clelia Farris. Il libro uscirà prossimamente per la collana Avatar.
La vicenda è ambientata in un Egitto ucronico (o steampunk, anche se non c'è vapore, ma congegni elettronici mescolati alla vita religiosa e contadina dell'epoca), in cui l'avanzamento del deserto causa movimenti ribelli secessionisti (e anche eretici). La storia parte dall'infanticidio e dall'assunzione di colpa di una vecchia (madre della prima moglie del padre del bambino, che ha ucciso per motivi di eredità), che viene giustiziata.
I Sette sono una commissione di esperti in diretta comunicazione con i Giudici (entità defunte). La protagonista Naima vi è appena entrata, ma il caso vuole che il verdetto dei Sette (sull'infanticidio) sia sbagliato perché la vecchia ha sì avvelenato il bambino, ma con un veleno (l'artemisia) che non uccide, e dall'autopsia si scopre che il bambino è stato ucciso da un altro veleno. A causa di ciò i Giudici rompono il patto che c'era con i Sette (una sorta di scambio delle anime per cui, per ogni colpevole giustiziato, viene restituita un'anima ai vivi). Nel corso del romanzo muore anche Menes, un importante personaggio che ha collegamenti con i Movimentisti, ribelli che sono a favore dello spostamento dello Stato egizio a causa della desertificazione.
Nel frattempo è stato pubblicato il bando per l'edizione 2011 del Premio Kipple. Le edizioni precedenti sono state vinte da Biancamaria Massaro con I Signori del Malsem e Alberto Cola con Ultima pelle. Due libri dal forte pathos psicologico, complesso intreccio e buona costruzione dei personaggi. Notevole il fatto che due edizioni su tre siano stati vinte da una donna.
La terza edizione del Premio Kipple (anno 2010) è stata assegnata al romanzo La pesatura dell'anima di Clelia Farris. Il libro uscirà prossimamente per la collana Avatar.
La vicenda è ambientata in un Egitto ucronico (o steampunk, anche se non c'è vapore, ma congegni elettronici mescolati alla vita religiosa e contadina dell'epoca), in cui l'avanzamento del deserto causa movimenti ribelli secessionisti (e anche eretici). La storia parte dall'infanticidio e dall'assunzione di colpa di una vecchia (madre della prima moglie del padre del bambino, che ha ucciso per motivi di eredità), che viene giustiziata.
I Sette sono una commissione di esperti in diretta comunicazione con i Giudici (entità defunte). La protagonista Naima vi è appena entrata, ma il caso vuole che il verdetto dei Sette (sull'infanticidio) sia sbagliato perché la vecchia ha sì avvelenato il bambino, ma con un veleno (l'artemisia) che non uccide, e dall'autopsia si scopre che il bambino è stato ucciso da un altro veleno. A causa di ciò i Giudici rompono il patto che c'era con i Sette (una sorta di scambio delle anime per cui, per ogni colpevole giustiziato, viene restituita un'anima ai vivi). Nel corso del romanzo muore anche Menes, un importante personaggio che ha collegamenti con i Movimentisti, ribelli che sono a favore dello spostamento dello Stato egizio a causa della desertificazione.
Nel frattempo è stato pubblicato il bando per l'edizione 2011 del Premio Kipple. Le edizioni precedenti sono state vinte da Biancamaria Massaro con I Signori del Malsem e Alberto Cola con Ultima pelle. Due libri dal forte pathos psicologico, complesso intreccio e buona costruzione dei personaggi. Notevole il fatto che due edizioni su tre siano stati vinte da una donna.
Siamo tutti Dr. Jeckyll?
Oggi, 160 anni fa, nasceva Robert Louis Stevenson, autore di romanzi avventurosi, poesie e novelle, tra cui l'antologia Le nuove Mille e una notte, un tentativo decisamente gotico di trasposizione.
Il suo romanzo L'isola del Tesoro (1883) resta uno dei più celebri romanzi per ragazzi, ma è Lo strano caso del dr. Jekyll e mr. Hyde (1886) il suo capolavoro.
Un romanzo dalle tinte fosche, che s'inserisce senza scossoni nel filone gotico-romantico ottocentesco, ma che anticipa Freud e le grandi scoperte della psicologia.
Il libro affronta lo "sdoppiamento della personalità", una malattia sempre esistita, ma "riscoperta" dalla psicologia e classificata in diversi modi e ancora aoggi non del tutto individuata e soggetta a continui dibattiti.
Confusa in un calderone con l'accidia e la "melancolia" nel Medioevo, con la nascita della cosiddetta "scienza psicologica" (virgoletto perché la psicologia pur nascendo con le stesse intenzioni scientifiche galileiane, cioè la sperimentalità, a livello puramente teorico-scientifico è assimilabile alla scientificità della magia rinascimentale), assume il nome di shizofrenia, riconosciuta quindi come psicosi (malattia), ma oggi divisa in una galassia di sottocategorie, delle quali quella che affligge il nostro Jeckyll dovrebbe essere la sindrome da bipolarismo.
La sottocaterizzazione sembrerebbe un'evoluzione se non fosse che nel bipolarismo, o nelle sindromi depressivo-maniacali, ossessivo-compulsive, eccetera, si fanno rientrare una marea di disturbi psichici umorali tantoché oggi ho almeno una decina di amici a cui gli hanno diagnosticato uno di questi disturbi.
Sono tutti potenziali Mr. Hyde, serial killer o vampiri assassini? No, è la psicologia che perde colpi. Almeno così sostengo, da incompetente che sono, fino a una chiara smentita.
Insomma, si può assimilare il comportamento di Dr. Jeckyll, Ted Bundy, dei posseduti che hanno bisogno di veri esorcismi, con le persone che hanno sbalzi di umore?
Tra le altre cose, la psicologia dovrebbe essere al servizio della criminologia. Ma un sacco di delitti degli ultimi anni sembrano sfuggire a qualsiasi psicanalisi, quello della Franzoni su tutti, ma anche il "mondo parallelo" della famiglia Misseri.
La scientificità intenzionale della psicologia sembra naufragare in una galassia di credo non dissimili alla magia (che occultamente, anche se lentamente, sta evolvendo anch'essa, con risultati analoghi: la polizia spesso fa uso di "medium" ottenendo risultati a volte più proficui che dagli psicologi).
Tutto questo lo dico senza prendere posizione contraria alla ricerca scientifica, che è necessaria, ma a favore della cautela. Cautela di fronte a una "scienza" che non ha ancora raggiunto una stabilità che la renda vicina alla fisica più che alla magia.
eBook Kipple
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Wu Ming e il New italian Epic - Frame 3: Postmodernismo tamarro!
Come fa giustamente notare Wu Ming 1, non si può dare il nome di "post-qualcosa" a un fenomeno che va avanti da anni. I postumi di qualcosa (una sbronza, una guerra, un movimento letterario) durano il tempo di una reazione, di un rinculo. Non siamo più nel Secondo dopoguerra come non si può più parlare di postmodernismo.
La crisi mascherata da trionfo degli anni Novanta (festa della morte del nemico, prima di scoprire che ce n’era un altro all’interno della nostra società) è il periodo in cui il postmodernismo si riduce a maniera, il manierismo ha in nuce la decadenza.
Il postmodernismo che si vantava di essere fuori dalle regole, sopra le parti, oltre l’immaginazione è riconducibile ad alcune regolette, ed eccole: fusione di cultura alta e popular culture, citazioni-saccheggio dal passato, derive metalinguistiche. Ma soprattutto disillusione-disincanto (da qui l’obbligo di non essere seri). Si è imboccato la via delle ricombinazioni ironiche, dell’irrisione del linguaggio, del metadiscorso (irrisione verso l’irrisione, ironia dell’ironia, parodia della parodia).
Insomma un neo-barocchismo di maniera, in una parola: tamarro!
Con lodevoli eccezioni (DeLillo, Pynchon e Doctorow, nientemeno, e comunque non in Italia), la narrativa postmoderna e d’avanguardia si era ridotta a questo.
Cosa c’è stato di veramente di nuovo dagli anni Novanta a oggi?
Wu Ming intravede qualcosa due anni fa, nel Memorandum 1993-2008, un nuovo approccio alla letteratura e all’arte, peculiare soprattutto dell’Italia. Non sono gli unici, infatti anche il gruppo di Scrittura Industriale Collettiva indica qualcosa di molto simile.
I caratteri di quello che fu il postmodernismo sono finalmente digerite, e il senso si sposta dal “come” verso il “cosa”. Dalla sperimentazione fine a se stessa a quella al servizio della trama. Non si è più in presenza di una “fusione di cultura alta e pop”, ma si maneggiano le nuove “creature” e si fanno crescere e vivere di vita propria (le graphic novel non sono più affascinanti ibridi da carrozzone, ma opere che si prendono sul serio), le citazioni non hanno quell’insopportabile carattere parodistico, ma sono nodi, vincoli di percorsi di lettura alternativi, che raccolgono nuovi gruppi di lettori (cito Eco: “Come direbbe Liala, ti amo disperatamente”, parodia postmodermista, mentre è più serio e sincero dire: “Nonostante Liala, ti amo disperatamente”, in questo modo allontano dall’opera il gruppo di lettori di Liala).
Le deviazioni del linguaggio e della trama non sono più fini a se stesse (William Burroughs fa parte del suo tempo, oggi è impensabile scrivere un Pasto Nudo senza cadere nell’esercizio manieristico, cioè una cosa che quell’opera non era.)
Gli elementi del postmodernismo sono “digeriti”, utilizzati sottilmente. Quello su cui invece si deve lavorare è la storia, il nocciolo stesso della letteratura.
Wu Ming propone il percorso del New Italian Epic, che ha caratteri epici e realisti. La sintesi fiction/non fiction si realizza nel superamento della contrapposizione tra realismo ed epica (non a caso il gruppo di Scrittura Indistriale Collettiva lo chiama “Realismo liquido”).
Una sintesi che non sappia di artefatto: non siamo più in presenza di blande “contaminazioni” ma, come assistiamo in televisione e dovunque, fusione tra reale e immaginario, tra documentario e fiction. In questo Gomorra di Saviano è un esempio perfetto. Innegabile la verità dei suoi racconti, si notano delle variazioni dell’io narrante, che da prima persona diventa protagonista di un racconto che l’autore ha sentito raccontare, ciò dà un senso epico alla cruda cronaca. Gomorra è, senza ombra di dubbio, perturbante.
Questa epica non ha un senso solo classico, ma è realizzata con un lavoro sui toni, sui sensi figurati, sui riverberi dei significati dei termini, sul desiderio di spazio, di sopresa, di avventura. Quindi sull’allegoria e sulla perturbanza. Epica e deviazione, desiderio di infinito e alterità da se stessi.
In questo senso i già citati (nel post precedente) romanzi dei Connettivisti, la silloge di poesie di Concetti Spaziali, Oltre (Kipple, 2010), e la raccolta di poesie in Le commedie del buio di Paolo Ferrante sono New Italian Epic in pieno. E questo per non parlare del molto inedito che c’è ancora da pubblicare (viste le difficili condizioni editoriali in Italia e nel mondo).
Infine, esempio perfetto epicità perturbata (ma credibile, non più solo postmoderna) è la proposta di Wu Ming 2 di non lasciare alla sua tragicissima morte Euridice. Orfeo, figlio cantore della musa della poesia epica Calliope, era andato a riprendersi la sua amata Euridice negli Inferi. Ade gli aveva concesso il ritorno della donna solo se lui non si fosse mai voltato a guardarla. Lui resiste per tutto il tempo ma, proprio all’uscita dell’inferno, tra buio e luce, si volta e lei muore. Wu Ming propone che Orfeo fosse cieco, come del resto lo erano molti cantori. In tal modo lui si volta, ma non la può vedere comunque e lei si salva.
Wu Ming e il New italian Epic - Frame 2: Connettivismi laterali
Wu Ming traccia un percorso critico letterario (italiano) inquadrato nel periodo storico che va dal Crollo del Comunismo/Seconda Repubblica fino a oggi (1993-2008).
Vediamo quali sono gli elementi del New Italian Epic (NIE):
- È una rete di opere e non un gruppo di autori (cioè sono le opere che hanno un carattere Nuovo ed Epico, non necessariamente l’autore, quindi non tutte le opere degli autori che le hanno scritte ne fanno parte).
Queste opere:
- Hanno un carattere Epico (nel senso più ampio, non solo classico, del termine, realizzato soprattutto sui toni, sui sensi figurati, sui riverberi dei significati dei termini, sul desiderio di spazio, di sopresa, di avventura).
- Si prendono sul serio (che non significa che sono seriose, anzi contemplano anche l’ironia, la parodia e il sarcasmo, ma non negli eccessi del “postmodernismo” anni 80 e 90). Quindi hanno un carattere Etico, sia nei confronti della politica, sia e soprattutto nei confronti della letteratura stessa. Sono molto curati stilisticamente e narrativamente, fin nei minimi dettagli, senza trascurare il loro carattere olistico, il colpo d’occhio d’insieme.
- Sono tutte pervase dall’allegoria (Wu Ming propone il ternime “Allegoritmo”, da allegoria + algoritmo).
- C’è quasi sempre una preoccupazione per il futuro, spesso affrontato con elementi di fantasia, fantascienza e realtà alternative (modalità narrative predilette sono l’ucronia e/o la storia alternativa).
- Importante è il punto-di-vista, che spesso è inconsueto, incompreso, spiazzante, “perturbante”.
- Molto spesso sono ambigue, una sintesi di fiction e non-fiction. A volte sono docufiction, altre storia e/o cronoca riletta e reiterpretata.
- Fa sempre riferimento alla popolar culture, con cui s’intende una certa cultura di massa e underground (insomma non la pop-art falso iconoclastica - e quindi iconografica -, nemmeno il Grande Fratello, ma i fumetti, la musica del mondo postrock, certa elettronica non manierista, eccetera).
- Sovente presenta una certa sovversione subliminale, nascosta, nello stile, nel montaggio, nell’impianto delle storie (in pratica la sperimentazione è “sottile”, appena percepibile, non più fine a se stessa, ma alla storia).
- Spesso presenta delle deviazioni, delle perturbazioni nella storia, nel punto-di-vista dell’io narrante, dello stile, a volte, impercettibili, lessicali, grafiche od ortografiche.
Insomma epico-etico-allegorico-pop-perturbante. Ecco gli aggettivi della più nuova (nel senso più profondo del termine) ventata letteraria italiana.
Ma veniamo alle opere. Sono consiederate parte della ragnatelas NIE:
54 e Manituana (Wu Ming), Black Flag (Valerio Evangelisti), Nelle mani giuste (Giancarlo De Cataldo), La rpesa di Macallé (Camilleri), L’ottava vibrazione (Lucarelli), Cristiani di Allah (Carlotto), Hitler (Giuseppe Genna), I viaggi di Mel e La banda Bellini (Philopat), Lezioni di tenebra (Helena Janeczok), Gomorra (Saviano), Una storia Romantica (Scurati), L’angelo della storia (Bruno Arpaia), Scirocco (Girolame De Michele), Il diavolo custode (Luigi Balocchi) e poi libri di Alan D. Altieri, Marcello Fois, Luca Masali e molti altri.
A questo punto è impossibile notare che il Connettivismo abbia molti caratteri del NIE e che si compenetri naturalemente. Innazitutto l’indole aperta, da “open source”, da “campo di forza”: il Connettivismo, come il NIE non è un gruppo di persone, ma un modo di essere delle opere.
Poi: i generi prediletti (ucronia, fantascienza, storia alternativa), il riferimento alla popular culture, la “serietà” etica verso la letteratura e la sociopolitica, i punti-di-vista inconsueti, la sovversione subliminale, le perturazioni delle storie e degli stili e, anche la mescolanza tra narrativa e saggistica.
Tutte queste prerogative si possono scoprire leggendo le quindici e passa uscite di NeXt (la rivista Connettivista) e il sito www.next-station.org dove si alternano narrativa, saggistica, poesia e arte figurativa.
E se, devo proprio scegliere alcune opere Connettiviste che senza dubbio fanno parte del NIE (quindi dei romanzi editi che hanno queste caratteristiche, ma che sono soprattutto Nuove ed Epiche) sono Ptaxghu6 di Sandro Battisti e Marco Milani, I caldi sensori di Paula di Claudio Gavina, Il Grande Tritacarne e Gli occhi dell’Anti-Dio di Lukha Kremo Baroncinij.
(segue nel prossimo post, domani)
Wu Ming e il New italian Epic - Frame 1: Vaffanbyte!
Nel 2008 Wu Ming (una sorta di Consorzio Scrittori Indipendenti) nel Memorandum 1993-2008 ha suggerito il “New Italian Epic”, un percorso critico letterario italiano che principiava dalle radici della caduta del comunismo reale, del muro di Berlino e della prima sciagurata Repubblica Italiana (che aveva raggiunto il suo apice nel 1977 con l’ancora oggi incredibile vicenda di Aldo Moro, sacrificato agli altari della Patria e della Chiesa). Dopo anni di gozzoviglie criticoletterarie, di nichilismo superficiale, di false condanne al Tatcherismo-Reaganismo-Paninarismo anni Ottanta, per la prima volta si respira aria a giusto contenuto di ossigeno. Gli anni Novanta sono stati il rinculo degli Ottanta. Cade l’Urss, il muro Oriente-Occidente, il bipolarismo mondiale: l’Ordine del pianeta è definitivamente allineato, la Storia è finita, l’Homo liberalis è il modello vincente!
Per niente, invece.
Le gozzoviglie sono proseguite tali e quali, solo in nome di qualcos’altro. Anche Philopat è concorde nel ritenere i Novanta, “un po’ meno peggio degli Ottanta”. E la cosa che fa dei Novanta “meglio” dei suoi predecessori è l’assenza di un integralismo occidentale capitalistico che faccia da caposaldo contro l’innominabile che c’era “di là”. Morto il nemico (meglio, ridotto agli “Stati canaglia”), l’entusiasmo è fine a se stesso, quindi meno intenso, meno ridicolo, meno “peggio”.
Ma, in pratica, siamo di fronte a una crisi mascherata da trionfo. Gli anni Novanta sono gli anni in cui, tolta la maschera rossa dal volto del nemico, si è scoperto che il nemico era dentro di noi.
Il sogno (per chi l’ha fatto) è durato poco. Il crollo della New Economy e il Movimento di Seattle sono stati fenomeni troppo sottovalutati e nel luglio 2001 a Genova tutti hanno capito perché. A settembre 2001, l’attentato alle Twin Towers ha conclamato definitivamente che il nuovo ordine mondiale non era così equilibrato come si pensava, anzi. Con la crisi economica del 2008 si è di fronte alla conferma di tutto ciò: ora siamo consapevoli che il modello vincente, quello capitalistico, è per sua natura instabile.
(segue nel prossimo post, domani)
Biblioteche, contro la crisi ecco l'e-book per tutti
[Letto su Repubblica.it]
Il futuro bussa in biblioteca con l'e-book, il libro che non si vede sugli scaffali, che non occupa le stanze. Certi cambiamenti entrano dalle porte secondarie, dai corridoi. Mentre le grandi biblioteche faticano a guardare avanti ingessate dai tagli alla cultura e dagli organici spolpati, il libro digitale debutta fuori dai monumenti del sapere scritto. Se si vuole trovare qualche pioniere dell'e-book bisogna cercarlo nelle biblioteche comunali: per esempio a Cologno Monzese, in Lombardia, o alla biblioteca Fucini di Empoli, in Toscana. Con i soliti pochi mezzi, ma con qualche idea nuova. È in quei "laboratori" che si sperimenta la nuova faccia della biblioteca, lì dove i lettori possono uscire con un e-reader in prestito portandosi via in un solo colpo mezzo catalogo: Pinocchio e i Promessi sposi, Moby Dick, ma anche tutto Dante, Pascoli, Alfieri, Verga e un po' di Wu Ming in versione digitale. Un eterogeneo concentrato di cultura, in tasca e gratis.
La biblioteca civica di Cologno Monzese, 120mila volumi e 170mila prestiti l'anno, ha comprato all'inizio del 2010 una quarantina di e-reader, le tavolette elettroniche per la lettura: "Subito c'è stata una corsa a prenotare il Kindle o gli altri supporti digitali - spiega Luca Ferrieri, responsabile della biblioteca - poi siccome avevamo quasi esclusivamente classici, romanzi liberi dal diritto d'autore, l'entusiasmo è andato calando". Adesso però cominciano i primi acquisti di narrativa contemporanea: "Si debutta con 300 titoli da Maggiani, a Murgia, Ken Follet, Nothomb". Stesso scenario a Empoli, dove gli e-reader sono undici e le prenotazioni vanno fino a febbraio: "Non sono solo i giovani a chiederli - racconta Carlo Ghilli - anzi nella lista d'attesa ci sono soprattutto professionisti e i frequentatori assidui della biblioteca". Su tutte le "tavolette" sono stati caricati gli stessi romanzi, una sessantina di titoli: "C'è anche Alice nel Paese delle meraviglie con le illustrazioni originali". Poco più di mille euro l'investimento a Empoli, ventimila per il progetto e-book reader di Cologno (metà arrivano da un finanziamento regionale).
"L'obiettivo è avvicinare i lettori ai nuovi supporti tecnologici - prosegue Ferrieri - ma è chiaro che nel futuro non saranno le biblioteche a prestare i Kindle o gli i-Pad: gli utenti verranno da noi o prenoteranno dai nostri siti online gli e-book". Succede già all'estero: "Sì, e non ci sarà nemmeno bisogno di riportare il libro digitale in biblioteca perché il file si "consumerà" o meglio diventerà illeggibile alla scadenza del prestito". A differenza del libro tradizionale preso in biblioteca l'e-book si può sottolineare, si possono scrivere note a margine, ma quando lo si rende viene resettato e sono cancellati i dati personali. È questa la frontiera? E come si preparano le medie e grandi biblioteche alla metamorfosi culturale? "Siamo come nell'epoca in cui dal cavallo si è passati alle automobili: qualche motore si incepperà, ma non c'è dubbio che il futuro della lettura prevede anche il digitale", dice Mauro Guerrini, presidente dell'Aib, l'Associazione italiana delle biblioteche che con i suoi 4 mila iscritti rappresenta circa il 20 per cento dei professionisti del settore e che oggi a Firenze chiude il suo congresso nazionale.
Ma se cambia il mezzo e cambiano le abitudini dei lettori, anche il bibliotecario è in trasformazione: destinato a muoversi sia lungo i magazzini pieni di volumi, sia nelle stanze virtuali. "Fra i suoi compiti ci sarà anche quello di certificare la qualità di ciò che si trova in rete", prosegue Guerrini. Intanto sono i numeri a descrivere il declino delle 46 grandi biblioteche statali (comprese le Nazionali di Roma e Firenze). Gli investimenti pubblici a favore delle 46 biblioteche statali italiane negli ultimi cinque anni sono stati dimezzati con un abbassamento del budget da 30 a 17 milioni di euro l'anno e i tagli più consistenti riguardano un settore di vitale importanza come l'acquisto dei libri, passato da 8 a 3 milioni di euro: "Anche sull'informatica le risorse sono state ridotte - conclude Guerrini - . La digitalizzazione del nostro patrimonio culturale è praticamente ferma, ci si affida a Google e all'accordo fatto dal ministero ma, mi chiedo, è corretto affidarsi soltanto a Google?".
Il futuro bussa in biblioteca con l'e-book, il libro che non si vede sugli scaffali, che non occupa le stanze. Certi cambiamenti entrano dalle porte secondarie, dai corridoi. Mentre le grandi biblioteche faticano a guardare avanti ingessate dai tagli alla cultura e dagli organici spolpati, il libro digitale debutta fuori dai monumenti del sapere scritto. Se si vuole trovare qualche pioniere dell'e-book bisogna cercarlo nelle biblioteche comunali: per esempio a Cologno Monzese, in Lombardia, o alla biblioteca Fucini di Empoli, in Toscana. Con i soliti pochi mezzi, ma con qualche idea nuova. È in quei "laboratori" che si sperimenta la nuova faccia della biblioteca, lì dove i lettori possono uscire con un e-reader in prestito portandosi via in un solo colpo mezzo catalogo: Pinocchio e i Promessi sposi, Moby Dick, ma anche tutto Dante, Pascoli, Alfieri, Verga e un po' di Wu Ming in versione digitale. Un eterogeneo concentrato di cultura, in tasca e gratis.
La biblioteca civica di Cologno Monzese, 120mila volumi e 170mila prestiti l'anno, ha comprato all'inizio del 2010 una quarantina di e-reader, le tavolette elettroniche per la lettura: "Subito c'è stata una corsa a prenotare il Kindle o gli altri supporti digitali - spiega Luca Ferrieri, responsabile della biblioteca - poi siccome avevamo quasi esclusivamente classici, romanzi liberi dal diritto d'autore, l'entusiasmo è andato calando". Adesso però cominciano i primi acquisti di narrativa contemporanea: "Si debutta con 300 titoli da Maggiani, a Murgia, Ken Follet, Nothomb". Stesso scenario a Empoli, dove gli e-reader sono undici e le prenotazioni vanno fino a febbraio: "Non sono solo i giovani a chiederli - racconta Carlo Ghilli - anzi nella lista d'attesa ci sono soprattutto professionisti e i frequentatori assidui della biblioteca". Su tutte le "tavolette" sono stati caricati gli stessi romanzi, una sessantina di titoli: "C'è anche Alice nel Paese delle meraviglie con le illustrazioni originali". Poco più di mille euro l'investimento a Empoli, ventimila per il progetto e-book reader di Cologno (metà arrivano da un finanziamento regionale).
"L'obiettivo è avvicinare i lettori ai nuovi supporti tecnologici - prosegue Ferrieri - ma è chiaro che nel futuro non saranno le biblioteche a prestare i Kindle o gli i-Pad: gli utenti verranno da noi o prenoteranno dai nostri siti online gli e-book". Succede già all'estero: "Sì, e non ci sarà nemmeno bisogno di riportare il libro digitale in biblioteca perché il file si "consumerà" o meglio diventerà illeggibile alla scadenza del prestito". A differenza del libro tradizionale preso in biblioteca l'e-book si può sottolineare, si possono scrivere note a margine, ma quando lo si rende viene resettato e sono cancellati i dati personali. È questa la frontiera? E come si preparano le medie e grandi biblioteche alla metamorfosi culturale? "Siamo come nell'epoca in cui dal cavallo si è passati alle automobili: qualche motore si incepperà, ma non c'è dubbio che il futuro della lettura prevede anche il digitale", dice Mauro Guerrini, presidente dell'Aib, l'Associazione italiana delle biblioteche che con i suoi 4 mila iscritti rappresenta circa il 20 per cento dei professionisti del settore e che oggi a Firenze chiude il suo congresso nazionale.
Ma se cambia il mezzo e cambiano le abitudini dei lettori, anche il bibliotecario è in trasformazione: destinato a muoversi sia lungo i magazzini pieni di volumi, sia nelle stanze virtuali. "Fra i suoi compiti ci sarà anche quello di certificare la qualità di ciò che si trova in rete", prosegue Guerrini. Intanto sono i numeri a descrivere il declino delle 46 grandi biblioteche statali (comprese le Nazionali di Roma e Firenze). Gli investimenti pubblici a favore delle 46 biblioteche statali italiane negli ultimi cinque anni sono stati dimezzati con un abbassamento del budget da 30 a 17 milioni di euro l'anno e i tagli più consistenti riguardano un settore di vitale importanza come l'acquisto dei libri, passato da 8 a 3 milioni di euro: "Anche sull'informatica le risorse sono state ridotte - conclude Guerrini - . La digitalizzazione del nostro patrimonio culturale è praticamente ferma, ci si affida a Google e all'accordo fatto dal ministero ma, mi chiedo, è corretto affidarsi soltanto a Google?".
Amazon si dà al prestito
[Letto su Menstyle.it]
Immagina un libro, uno qualsiasi. Ci sei? Bene. Adesso immagina di averlo letto tutto: che fai? Ok, magari è di Moccia o Melissa P. e devi rileggerlo per capirlo, ma fatto questo lo presti. E il prestito è un po' quello che mancava ai libri digitali, gli ebook. Almeno fino a oggi, perché quelli che si occupano dello sviluppo di Kindle (www.kindle.com), il lettore di Amazon, han ben pensato di aggiungere questa sfiziosa funzione per i loro affezionanti fan. E si estende non solo ai lettori fisici, ma anche all'omonima "app", disponibile anche per i dispositivi Apple. Fantastico davvero, peccato che l'industria editoriale sia stata messa in subbuglio dalla notizia, visto che il prestito equivale a mancati guadagni. Insomma, gli editori si stanno spaccando in quattro per trovare un sistema anticopia efficace per gli ebook, e questi di Kindle gli rompono le uova nel paniere.
In realtà la mossa di Amazon è furba e calcolata. Innanzitutto il prestito ha dei vincoli precisi: è effettuabile solo tra dispositivi Kindle, può durare al massimo 14 giorni e si può fare una volta sola per ciascun ebook. Inoltre, chi lo presta non può leggerlo finché non gli viene restituito virtualmente. Il tutto è ovviamente controllato dalla tecnologia interna di Kindle, che replica alla perfezione il funzionamento di una biblioteca. A far compagnia a questa mezza rivoluzione in salsa ebook, è stata annunciata una funzione che consente di leggere su più dispositivi un quotidiano elettronico a cui si è abbonati. Così, per dire, se dimentichi a casa il tuo Kindle, puoi leggerti il giornale con la versione software che hai installato nel PC dell'ufficio. Boss permettendo, s'intende.
Sono in molti a guardare con interesse alle novità del mondo Kindle, giusto per vedere la piega che sta prendendo il mondo dell'editoria digitale, considerata come la naturale, e arrembante, evoluzione di quella cartacea. A noi non resta che leggere, anche se si tratta di Moccia o Melissa P.
(di Riccardo Meggiato)
Immagina un libro, uno qualsiasi. Ci sei? Bene. Adesso immagina di averlo letto tutto: che fai? Ok, magari è di Moccia o Melissa P. e devi rileggerlo per capirlo, ma fatto questo lo presti. E il prestito è un po' quello che mancava ai libri digitali, gli ebook. Almeno fino a oggi, perché quelli che si occupano dello sviluppo di Kindle (www.kindle.com), il lettore di Amazon, han ben pensato di aggiungere questa sfiziosa funzione per i loro affezionanti fan. E si estende non solo ai lettori fisici, ma anche all'omonima "app", disponibile anche per i dispositivi Apple. Fantastico davvero, peccato che l'industria editoriale sia stata messa in subbuglio dalla notizia, visto che il prestito equivale a mancati guadagni. Insomma, gli editori si stanno spaccando in quattro per trovare un sistema anticopia efficace per gli ebook, e questi di Kindle gli rompono le uova nel paniere.
In realtà la mossa di Amazon è furba e calcolata. Innanzitutto il prestito ha dei vincoli precisi: è effettuabile solo tra dispositivi Kindle, può durare al massimo 14 giorni e si può fare una volta sola per ciascun ebook. Inoltre, chi lo presta non può leggerlo finché non gli viene restituito virtualmente. Il tutto è ovviamente controllato dalla tecnologia interna di Kindle, che replica alla perfezione il funzionamento di una biblioteca. A far compagnia a questa mezza rivoluzione in salsa ebook, è stata annunciata una funzione che consente di leggere su più dispositivi un quotidiano elettronico a cui si è abbonati. Così, per dire, se dimentichi a casa il tuo Kindle, puoi leggerti il giornale con la versione software che hai installato nel PC dell'ufficio. Boss permettendo, s'intende.
Sono in molti a guardare con interesse alle novità del mondo Kindle, giusto per vedere la piega che sta prendendo il mondo dell'editoria digitale, considerata come la naturale, e arrembante, evoluzione di quella cartacea. A noi non resta che leggere, anche se si tratta di Moccia o Melissa P.
(di Riccardo Meggiato)
Si toglie la proteina e la paura va via
Su Repubblica.itun articolo dove si argomenta che togliendo una specifica proteina dall'amigdala il ricordo di un trauma scompare.
Un estratto:
L'esito dello studio è stato pubblicato sulla rivista Science Express. I ricercatori guidati da Richard Huganir, attraverso test sui topi, hanno prima identificato e poi rimosso una proteina di una particolare area cerebrale in grado di imprimere i ricordi paurosi nella memoria. Per verificare la validità della loro intuizione, hanno spaventato gli animali attraverso l'uso del suono, poi hanno proceduto a eliminare la proteina in questione e scoperto che dopo questa operazione il suono, quale causa del trauma, non era più associato alla paura. A differenza degli altri animali, i topi "ingegnerizzati" avevano insomma dimenticato lo spavento che il suono aveva inizialmente generato in loro.
La proteina in questione si trova nell'amigdala, l'area cerebrale responsabile, tra l'altro, del condizionamento alla paura sia sulle persone che sugli animali. Per identificarla, i ricercatori hanno osservato il meccanismo che spinge alcune cellule dell'amigdala a produrre più "corrente" quando ci si spaventa. L'impatto traumatico con la paura, in pratica, provoca un aumento deciso e repentino di queste particolari proteine. Lo studio ha infine dimostrato che queste proteine possono essere rimosse dalle cellule nervose.
Un estratto:
L'esito dello studio è stato pubblicato sulla rivista Science Express. I ricercatori guidati da Richard Huganir, attraverso test sui topi, hanno prima identificato e poi rimosso una proteina di una particolare area cerebrale in grado di imprimere i ricordi paurosi nella memoria. Per verificare la validità della loro intuizione, hanno spaventato gli animali attraverso l'uso del suono, poi hanno proceduto a eliminare la proteina in questione e scoperto che dopo questa operazione il suono, quale causa del trauma, non era più associato alla paura. A differenza degli altri animali, i topi "ingegnerizzati" avevano insomma dimenticato lo spavento che il suono aveva inizialmente generato in loro.
La proteina in questione si trova nell'amigdala, l'area cerebrale responsabile, tra l'altro, del condizionamento alla paura sia sulle persone che sugli animali. Per identificarla, i ricercatori hanno osservato il meccanismo che spinge alcune cellule dell'amigdala a produrre più "corrente" quando ci si spaventa. L'impatto traumatico con la paura, in pratica, provoca un aumento deciso e repentino di queste particolari proteine. Lo studio ha infine dimostrato che queste proteine possono essere rimosse dalle cellule nervose.
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